La scrittrice Concetta D'Angeli, alla presentazione del libro "Le Rovinose" a Roma nel settembre 2021 |
C.D'Angeli al matrimonio dei suoi amici Damiano e Tony |
Si è occupata di fiabe di tradizione popolare o colta (Carlo Collodi è uno dei suoi autori prediletti) e di letteratura del Novecento: Italo Calvino, Elio Vittorini, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori e, spinta da interessi politici, sociali e femministi, Karen Blixen, Agota Kristof, Simone Weil, Elsa Morante.
Dal 2007 al 2010 ha progettato e realizzato insieme a Guido Paduano e Alfonso Iacono la rivista semestrale di studi teatrali Atti&Sipari, con gli interventi di Carlo Cecchi, Sandro Lombardi, Danio Manfredini, Ezio Moscato.
È membro della Giuria del Premio nazionale letterario Pisa (sezione Narrativa). Nel 2021 è stata nominata Presiedente della Giuria.
La copertina del libro "Le Rovinose" |
«Come successe che dalle rivendicazioni di partenza, sacrosante, generose, eravamo forse i migliori della nostra generazione, come successe che prevalse la violenza? Perché fu quello, sai, l’intoppo che fece saltare tutto. […] Successe, a un certo punto, e ancora non me ne capacito, che il terrore si trasformò in passione, si sganciò dai suoi obiettivi, diventò fine a se stesso. (ilramoelafogliaedizioni)".
Concetta D’Angeli, ci parli del suo ultimo libro “Le Rovinose”, uscito nel luglio del 2021.
Il romanzo si svolge durante i cosiddetti “anni di piombo” e racconta la storia parallela di due ragazze, amiche durante gli studi universitari, che poi vivono vite diverse e lontane: una, architetta a Milano, percorre la strada dell’emancipazione e dell’omosessualità; l’altra, ritiratasi in una masseria del Salento insieme al marito ricco professionista, nasconde dietro un’apparenza appagante una realtà ambigua. Due vite che non finiranno bene. Parte integrante del romanzo è costituita da una “Cronologia” che dal 1976 al 1988 (gli anni in cui si svolgono le vicende raccontate) annota l’impressionante successione delle uccisioni compiute da estremisti politici, di destra e di sinistra, e dalla malavita organizzata. “Le rovinose” è stato pubblicato da una giovanissima casa editrice di Roma, Il ramo e la foglia edizioni, che lo ha accolto con entusiasmo – e di questo sono molto grata.
In particolare, ci parli del rapporto tra le protagoniste, Silvana e Clara: amore o amicizia?
Per quanto riguarda Silvana si tratta senza dubbio d’amore, anzi di un innamoramento così esplicito e innegabile da farle scoprire la sua omosessualità; ed è anche, per lei, un sogno che si mantiene intatto a distanza di anni, se la lettera dell’amica, che riceve inattesa e dopo molti anni di silenzio, le mette in moto memorie e sentimenti dolorosi, che a lungo ha tentato di seppellire. Diverso è il caso di Clara, un personaggio talmente inafferrabile che è difficile cogliere anche la natura dei suoi affetti; certo che, nella sua vita disperata, il ricordo di Silvana resta vivido, se proprio a Silvana si rivolge per lasciare una traccia di sé, per non essere del tutto dimenticata.
Cosa ci insegna “Le Rovinose”? Qual è il messaggio, se c’è, che vuole trasmettere?
Non ho voluto, consapevolmente, affidare messaggi al mio romanzo, a parte l’orrore per la violenza, per ogni tipo di violenza, pubblica e privata. Scrivendolo, ho cercato di rappresentare la vita di due ventenni, che cercano a tentoni la propria strada e la propria realizzazione in anni (gli anni di piombo!) che furono terribili e, insieme, entusiasmanti e cambiarono l’esistenza, i modelli di riferimento, i valori di moltissime giovani donne della mia generazione. Non vorrei che se ne perdesse la memoria, come purtroppo mi pare che stia succedendo.
Perché dovremmo leggerlo?
Secondo me per parecchie ragioni: è una memoria storica raccontata “dall’interno”, cioè dal punto di vista di due persone qualunque che vivevano in quegli anni la loro giovinezza; è una ricerca d’amore che può condurre alla scoperta della propria identità ma può anche annientare; è la dimostrazione di quanto siano labili i confini tra i sentimenti (l’amore che sconfina nella violenza, l’ambizione che diventa arrivismo cieco…) e tra i valori (la bellezza che viene cancellata dalla smania di possesso…). Credo anche che sia un libro ben scritto, attento alla struttura romanzesca, variata da intarsi di lettere e pezzi di diario e tuttavia mantenuta fino in fondo; e attento al linguaggio, che cerca di non essere troppo corrivo né banale. Insomma credo che ci si possano trovare molte differenti emozioni e un’ampia materia di riflessione.
Parliamo ora di lei. Chi è Concetta D’Angeli?
Sono stata una lettrice vorace fin da bambina; poi, adulta, ho insegnato all’università, prima letteratura italiana contemporanea e poi drammaturgia teatrale. Sebbene il mio lavoro fosse vario e per molti aspetti invidiabile, ho sempre avuto il sospetto che la mia vera strada fosse la scrittura creativa, che non ho scelto, quand’ero giovane, per mancanza di coraggio e anche per opportunismo: come si fa a rifiutare un insegnamento universitario per un sogno? Quando sono andata in pensione ho voluto mettere alla prova quel desiderio giovanile, ho voluto capire se era un’aspirazione velleitaria o una strada che avrei potuto percorrere. Non sta a me giudicare i risultati; posso solo dire che quando scrivo mi sento realizzata come mai mi è successo in passato. Ho scritto finora 3 romanzi (“Le rovinose” è il terzo) e ne sono felice.
Vive anche lei in Toscana, come le protagoniste del suo ultimo libro, oppure altrove?
Sono nata nel Lazio, provincia di Rieti; sono venuta a Pisa dopo aver vinto il posto alla Scuola Normale e vivo ancora a Pisa. Amo questa città, i tramonti sui lungarni, i marmi della piazza dei miracoli, il mare a due passi, le colline verso Volterra dove pare che il tempo si sia fermato…
Ha una sua famiglia (comprensiva di animali)?
Vivo sola, con un gatto bello, mordace e ladro; e da quasi vent’anni ho una compagna che abita a una quarantina di chilometri (ma spesso passiamo dei periodi insieme), ho amiche alle quali voglio bene, e una sorella adorabile, rimasta nel Lazio. Questi affetti diversi e più o meno lontani sono per me la mia famiglia. È atipica, sì, ma mi piace moltissimo.
Come ha trascorso (trascorre) il periodo pandemico? Cosa ne pensa di tale momento storico?
Ho passato tutti i lockdown con la mia compagna, nella mia grande casa sui tetti di Pisa, e ho scritto parecchio. È stato e continua ad essere un brutto momento, che ha stravolto le vite di tutti, c’impone modi e ritmi costrittivi, ci obbliga a una provvisorietà difficile da reggere, ha impoverito moltissime persone, ha ucciso. Inoltre – ed è forse ciò che più mi addolora – ha diffuso o reso visibile un egoismo disumano; la mia impressione è che in tempi così tragici molti, troppi, badino solo a sé, alle proprie convenienze e se, in un tale grave pericolo collettivo, ci sono quelli che ne scapitano, che ci rimettono (anche la vita), la risposta mi pare un diffuso chissenefrega-purché-io-me-la-cavi. Sono per natura un’ottimista ma spesso in questi due anni il mio ottimismo ha traballato e in certi momenti s’è spento.
Ci racconti un po’ di Lei, dei suoi sogni, delle sue paure, dei suoi desideri.
Il sogno della scrittura ve l’ho già raccontato e si sta realizzando. Il desiderio più grande sarebbe vedere più generosità nel mondo, più esplicita e ramificata, espressa in modi diversi; ma credo che resterà un desiderio inesaudito. Ho paura del temporale, della stupidità, dell’egoismo, dell’ignoranza presuntuosa.
Possiamo aspettarci qualche altro suo titolo? E se sì, per quando è prevista l’uscita? Ha già in mente un nuovo titolo?
Durante i due lockdown ho scritto dei flashes narrativi, preferisco chiamarli così piuttosto che raccontini, perché non hanno la struttura del racconto; sono spunti o immagini fermate in una certa torsione, nate come esercizio di stile per asciugare la mia scrittura, che mi pare troppo – non so come dire – aggettivata, ecco, renderla più scarna e più capace d’inchiodare le immagini o le sensazioni. Ne è venuta fuori una breve raccolta di prose, penserei d’intitolarla “Donne, donne, eterni Dei!” e pochi giorni fa l’ho proposta a Il ramo e la foglia, gli editori di “Le rovinose”. Adesso aspetto la loro risposta, con le dita incrociate.
Il suo libro, “Le Rovinose”, “è un’acuta e dolorosa incursione nei meandri della violenza e di come questa possa originare dagli stereotipi, in particolare da quelli di genere”. Dunque, cosa pensa del Disegno di legge Zan sull’omotransfobia e le discriminazioni di genere e contro i reati d’odio verso tali categorie, oltre che verso le persone disabili?
Penso che su questi temi l’Italia sia una nazione incivile; penso che occorrerebbe rispetto per chiunque sia diverso; penso che sarebbe urgente anche rivedere il concetto di diversità, che giudico un pregiudizio fazioso imposto da un pensiero violento; penso che sia segno di grave povertà culturale costringere le identità individuali dentro gabbie rigidissime che in realtà corrispondono solo ad astrazioni, oltretutto valide per una ristretta minoranza e solo per brevi periodi. Il disegno di legge Zan è stato un tentativo di formalizzare l’opposizione a questo andazzo dominante; quando se ne discuteva ho pensato che fosse una battaglia giusta ma inadeguata. Mi ha molto delusa che neppure quella proposta compromissoria sia stata approvata.
Come giudica e a chi imputa la mancata approvazione di tale disegno di legge?
Il disegno di legge Zan ha avuto il merito di provare a definire meglio l’intricata questione dei crimini e le discriminazioni contro omosessuali, transessuali, donne e disabili; io sono stata sempre favorevole a leggi che intervengano e disciplinino questa materia confusa e difficile da dipanare, però non so dire se quel disegno di legge fosse ben formulato, talvolta ho avuto dei dubbi al proposito, ho pensato che forse si sarebbe potuto articolare meglio; certo però la sua approvazione avrebbe consentito all’Italia un passo avanti importante sul terreno della civiltà. I partiti politici di destra lo hanno impedito e la cosa non mi sorprende; ma probabilmente non è stato difeso a sufficienza nemmeno dai partiti di sinistra, che avrebbero potuto e dovuto farne una comune bandiera. Peccato che quest’utopia non si sia concretizzata.
Ritiene che le persone Lgbtqi+, ad oggi, possano considerarsi libere di vivere la loro vita e la loro sessualità, oppure pensa che ci sia ancora molto da fare e conquistare?
No, non sono ugualmente libere, non godono di diritti paritari né di pari considerazione e apprezzamento. Io sono lesbica dichiarata dalla fine degli anni Settanta, non ho mai avuto paura di dirlo né dubbi sull’opportunità di dirlo. Ma voglio precisare: prima di tutto sono una donna e anche solo come donna mi sento pesantemente discriminata. Poi, aggiungo, sono una donna alla quale piacciono sessualmente le donne, i corpi delle donne, l’erotismo fra donne; i corpi maschili non mi piacciono se non esteticamente – quando è il caso – come mi piacciono le belle statue, diciamo. Tuttavia molte caratteristiche che secondo il pensiero maggioritario dovrebbero definire l’identità femminile non mi appartengono: la maternità in primo luogo, che giudico un mito sopravvalutato e un obbligo imposto, oltre che un pesantissimo condizionamento ideologico. Molte donne desiderano davvero essere madri ma molte no e se finiscono per accettare o addirittura ricercano la maternità è per inerzia, perché si fa così, per adeguamento ai luoghi comuni, per mancanza di libertà e di fantasia. Io credo che si dovrebbe, tutti e tutte, avere la libertà piena di essere come vogliamo; e alla libertà riconosco un unico limite: il non fare male agli altri. È un limite che viene continuamente infranto: quando si sfrutta il lavoro altrui, quando si umiliano gli altri o si disprezzano, quando si usa la forza contro i più deboli, quando si ammazzano le persone per fare soldi, per imporre il proprio potere o la propria fede o semplicemente la propria personalità. Eppure in questi casi (e tanti altri se ne potrebbero elencare) quasi nessuno si scandalizza; invece si continua a scandalizzarsi se ci s’innamora di una persona dello stesso sesso, se una persona vuole cambiare sesso perché non si riconosce nel proprio, se non s’identifica esattamente con nessun sesso…
Ma Lei, cosa ne pensa delle persone Lgbtqi+?
Io penso che il movimento Lgbtqi+ sia un orientamento corretto del pensiero moderno ma trovo che abbia un difetto nella pretesa di inglobare tutte le varianti possibili del concetto di libertà sessuale. È un po’ lo stesso limite che ho trovato nella proposta di legge Zan, sebbene meno riduttivo in quel caso perché compito delle leggi è definire più che si può, nel tentativo di formalizzare ampi spazi di realtà. Un movimento politico o d’opinione invece, secondo me è una cosa diversa, è una riflessione sulla realtà, dovrebbe quindi essere in grado di concettualizzare la realtà e questo non lo si fa allargando il numero delle categorie coinvolte in quella riflessione ma agganciando la radice filosofica della riflessione. Posso sbagliarmi, ma mi pare che nel movimento Lgbtqi+ o in parte di esso questa istanza concettuale manchi, e a mio parere è un limite.
“Partendo dalla sua ultima risposta, cosa ne pensa della posizione della scrittrice britannica J.K. Rowling in merito alle persone transgender? Ritiene anche lei che le persone nate con cromosomi xy, che si sentono delle donne, possano essere definiti e possono avere le prerogative (si pensi in particolare, alle gare sportive), delle persone nate xx?"
Secondo me ha senso discutere della questione solo sul piano culturale e storico; la biologia è un fatto neutro, diciamo così, sul quale credo che la medicina possa intervenire (ed è bene che lo faccia), esattamente come interviene in altri settori della nostra salute; se nasco con un corpo di uomo – o di donna – ma sento fortemente che non mi appartiene e questa inappartenenza mi vota all’infelicità, perché non dovrei trasformare il mio corpo maschile in un corpo femminile, o viceversa, visto che la medicina è attualmente in grado di farlo? Non si obbedisce a bisogni analoghi (e, lasciatemelo dire, assai meno essenziali) quando si pretende di arrestare il processo d’invecchiamento ricorrendo alla chirurgia estetica? Perché su quelli non si trova da ridire e sul cambiamento di sesso sì? E ancora: è noto che molti bambini (sto usando il genere neutro!) nascono ermafroditi ed è noto – o dovrebbe essere noto – che per risolvere la questione s’interviene chirurgicamente, “d’ufficio”; perché questa pratica è ritenuta legittima e la stessa pratica, se motivata da malessere psichico e decisa dell’interessato/a e non dalla prassi medica, crea tante opposizioni e tante resistenze? La risposta credo sia: perché il problema dell’identità sessuale, semplice da risolvere sul piano clinico date le conquiste tecniche della medicina, sovverte gli schemi entro i quali siamo abituati a collocare l’umanità e quindi apre questioni ideologiche, destabilizza l’ordine socio-culturale consueto. Per me un uomo che vuole diventare donna, e lo diventa, è una donna a tutti gli effetti; e se non lo diventa fino in fondo è perché risente della sua formazione culturale, non del determinismo biologico, che non credo sia così costrittivo. Non credo che lo sia nemmeno per i maschi Alfa: se sono predatori, aggressivi, stupratori è perché la cultura li induce ad essere tali, non perché lo siano “per natura”. Mi pare che si tratti dello stesso stereotipo che riguarda il comportamento delle donne: l’opinione (più diffusa di quanto si creda, temo) è che, se non vogliono farsi violentare dal primo maschio che passa, devono andare in giro ben coperte oppure è “naturale” che scatenino gl’istinti virili, e il risultato ben gli sta! Quanto alle conseguenze che le persone transgender possono provocare negli sport (ma parlo di risultati sportivi, non dei comportamenti degli atleti – e anche qui sto usando il neutro!), non mi sono fatta un’opinione; credo che, questa sì, sia una risposta che dobbiamo attenderci dalla scienza medica”.
Grazie
RispondiEliminaintervista molto bella, grazie!
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